Il servo del Signore, l’Agnello di Dio… e il sacrificio

Oggi c’è un chiaro collegamento tra il testo del Vangelo (Giovanni 1,29-34) e la prima lettura (Isaia 49,3.5-8), tra il servo del Signore e l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Il servo sarà condotto al macello come agnello mansueto, in Quaresima leggeremo questo testo collegandolo alla passione di Gesù. L’agnello è animale ricorrente come vittima sacrificale, su cui scaricare i peccati per “placare l’ira divina”. Gesù-Agnello è il Figlio stesso di Dio che prende su di sé tutto il male che c’è nel mondo, l’innocente che si fa solidale con l’umanità segnata dal peccato.
Fin dal gesto di ricevere il battesimo da Giovanni, Gesù manifesta di essere venuto per calarsi al nostro livello, si confonde tra la gente pur essendo consapevole della sua innocenza e dell’origine divina. Perché Giovanni che dichiara – per due volte – di non conoscerlo? Eppure si conoscono dall’infanzia (molti pittori li hanno raffigurati bambini, insieme alle rispettive madri) ma credo si debba intendere la non conoscenza come la condizione umana che da sola è incapace di entrare nel mistero di Dio, se Dio stesso non gliene fa dono, rendendolo capace. E infatti Giovanni contempla lo Spirito che discende su Gesù in forma di colomba e riceve la rivelazione che Gesù è il Figlio di Dio. Anche le affermazioni di Giovanni su Gesù che viene dopo di lui ma è avanti e prima di lui ma pare vadano intese nel senso della sua apertura e sottomissione all’opera del Messia e Salvatore.
Questa domenica, che fa da cerniera tra il Battesimo di Gesù e l’inizio della sua attività pubblica, siamo chiamati a viverla come inizio della contemplazione del mistero della salvezza che si compirà nell’evento pasquale. E il riferimento all’Agnello che si sacrifica dovrebbe già orientarci alla contemplazione di quello che è l’aspetto centrare della nostra fede: il dono totale di sé che Gesù fa sulla croce che apre il passaggio verso la sconfitta delle morte e di tutto il male che c’è nel mondo, inclusi i nostri peccati.
La parola sacrificio può dare fastidio, soprattutto se usata in senso pietistico. Dal commento alla Liturgia di oggi di Nico Guerini riprendo un passaggio che mi pare significativo: “Sono nato e cresciuto in un’epoca in cui l’educazione al sacrificio era un punto centrale della formazione alla vita cristiana, fin da bambini, a partire dalle piccole mortificazioni, o “fioretti”, che eravamo invitati ad autoimporci per imitare Gesù e prepararci ad affrontare le difficoltà della vita. Poi è venuto un tempo in cui si cominciò a sorridere su queste cose, fino a che la logica tutta moderna del consumismo pare le abbia fatte sparire del tutto dall’orizzonte pedagogico. Peccato”.
Anch’io ricordo quello che fu per tanti anni il motto degli aderenti all’Azione Cattolica: “Preghiera, azione, sacrificio”; e quando la gioventù cattolica cantava: “ed ogni cuore affronta il suo destino vitato al sacrificio ed all’amor!”. Non per nostalgia del passato, ma per un invito – che rivolgo prima di tutto a me stesso – a non prendere sottogamba la vita cristiana. Che non è una passeggiata, ma piuttosto una “buona battaglia”. Buona sì, perché combattuta dalla parte di Dio, della verità del Vangelo, della fedeltà alla Chiesa. Ma pur sempre battaglia, da affrontare con le armi della violenza ma disposti al dono di sé, a pagare di persona, a rimetterci, a stare anche all’ultimo posto, a servire e non a essere serviti, a condividere con i poveri e farci poveri, a sentirci come Paolo “spazzatura del mondo”. Ad abbracciare, prima o poi e nel modo che ci toccherà, ciascuno la sua croce al seguito del Servo-Agnello.
Buona domenica!

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