Stefano Sodi presenta la pala di Sant’Ermolao

Invitato da don Antonio a dire due parole in questa occasione sulla pala di Paolo Maiani, non ho saputo – come spesso mi capita – dire di no ad un amico. Eppure probabilmente avrei dovuto farlo. Ho dismesso da moltissimi anni l’abito dell’estimatore (dire critico sarebbe davvero troppo!) d’arte e ho indossato quello dello storico della Chiesa, mestiere che faccio ormai da tempo: sarebbe perciò per me più facile parlare dei tre presbiteri di Nicomedia Ermolao, Ermippo ed Ermocrate, martirizzati durante la persecuzione di Galerio Massimiano all’inizio del IV secolo, o dell’introduzione nel nostro territorio del culto di almeno due delle tre principali coppie di santi medici anargiri (ovvero che curavano i malati senza compenso: ἀνάργυρος = «senza denaro»), quelle di Cosma e Damiano e, appunto, di Pantaleone ed Ermolao, tema già ampiamente trattato a più riprese dall’amica e collega Maria Luisa Ceccarelli Lemut, oppure lanciarmi in una serrata disamina delle ardite ipotesi interpretative delle tre iscrizioni presenti sulla lamina metallica che corre lungo la reliquia del braccio conservato nella vostra pieve avanzate cinque anni orsono da Francesco D’Aiuto, docente di Civiltà bizantina presso l’Università degli Studi di Roma «Tor Vergata».

Ma poiché specificamente della pala e del suo autore mi è stato chiesto di dirvi, così farò sia pure con assai meno competenza.

Paolo Maiani, i cui studi sono iniziati nell’Istituto d’arte “Russoli” di Pisa con docenti della caratura di Mino Rosi per poi proseguire all’Accademia di Belle Arti di Firenze sotto la supervisione di quello straordinario “poeta del colore” che è stato Gastone Breddo, ma che ha avuto anche la fortuna di incontrare sul suo cammino artistico e annoverare tra i suoi amici ed estimatori pittori come Pietro Annigoni, sicuramente l’artista italiano più noto tra quanti si sono impegnati nella realizzazione di importanti cicli decorativi di tema sacro, poeti come Mario Luzi, il più significativo rappresentante dell’ermetismo fiorentino, teologi come Severino Dianich, uno tra i più importanti esponenti dell’ecclesiologia postconciliare, ha formalmente iniziato la sua attività con una mostra personale nel 1973 a Pontedera.

Negli anni Ottanta, dopo varie esposizioni, inizia la realizzazione di grandi opere, tra le quali voglio ricordare le Beatitudini che ornano l’Aula Magna del Seminario arcivescovile di Pisa, volute da mons. Benvenuto Matteucci, e i cicli di affreschi, che diverranno una costante nella sua attività, ma che si alterneranno sempre ad una ricca produzione sia grafica sia pittorica. Il primo data al 1987 ed è quello della chiesa di San Salvatore di Montecarlo di Lucca; due anni più tardi, mentre sta completando la Lapidazione di santo Stefano nell’abside dell’omonima chiesa di Cascine di Buti, gli viene commissionato da mons. Antioco Piseddu, vescovo di Lanusei, il ciclo mariano nel santuario della Madonna dell’Ogliastra a Lanusei in Sardegna: oltre 400 m2 che Maiani terminerà nel 1997 con la grande parete esterna dell’edificio di culto.

Gli anni Novanta, mentre lo vedono ancora operare per pubblici committenti in Italia (ricordo tra i tanti il grande murales realizzato nel 1994 per il Comune di Orgosolo dedicato alla guerra in Bosnia nel centralissimo Corso Repubblica o il ciclo di affreschi – oltre 200 m2 di immagini – Se questa Acqua, che tra il 1997 e il 2000 Maiani ha voluto donare alla chiesa di San Francesco di Fornovolasco, paese così rovinosamente colpito nel 1996 da una devastante alluvione, offrendo una grandiosa riflessione teologica sul tema dell’acqua nella Sacra Scrittura), assumono ormai una proiezione internazionale: in Spagna (Castellon, Valencia, Vall d’Alba ma soprattutto Peňíscola dove espone, nelle sale del Castello di Papaluna oltre centoventi opere), in Francia (la Santa Sara nella Cattedrale di Saintes-Maries-de-la-Mer) e infine in Inghilterra (Newcastle e Ashington, ove realizza le tavole dei Profeti).

Il nuovo millennio si apre nel 2001 con la partecipazione alla Biennale Internazionale di Arte Sacra a Pompei, in cui Maiani espone opere (ad esempio il Dio degli altri) in cui si tende ad accentuare il messaggio cristiano del Dio degli ultimi, dei poveri, degli emarginati, probabilmente con un tributo alla poetica di Fabrizio De Andrè, cantautore che Maiani ha sempre amato e che aveva conosciuto personalmente due anni prima a Firenze. Questa stessa tematica diverrà una costante nella riflessione del nostro autore: basti pensare all’Ecce Homo del 2007, che richiama alla mente un altro cantante assiduamente frequentato da Maiani, Francesco Guccini, cui nel 2004 ha dedicato Gucciniana. Divagazioni dipinte su frasi di canzoni, una sensibile trasposizione pittorica dei testi del cantautore emiliano.

Per raccontare ancora gli esiti della pittura di Maiani in quest’ultimo quindicennio ci vorrebbe un tempo assai maggiore di quanto ci è concesso. Mi limito solo a ricordare per la loro importanza, tra le tantissime realizzazioni, gli affreschi realizzati a più riprese tra il 2002 e il 2006 nella chiesa di San Francesco di Pontedera, l’opera realizzata nella chiesa di Santa Elizabeth Ann Bayley Seton a Livorno, la grande vetrata per la cappella della Nunziatura Apostolica a Brasilia, l’imponente decorazione del santuario di Santa Maria Madre di Dio Theotòcos della diocesi di Sant’Amaro a San Paolo del Brasile. Non posso purtroppo indicare un testo biobibliografico di riferimento perché, anche se su Maiani molto è stato scritto, soprattutto da don Silvio Baldisseri, che ne è da molti anni estimatore e divulgatore, mai è stata realizzata una monografia critica complessiva dell’artista; esiste però un sito ufficiale cui attingere notizie e in cui reperire un’ampia documentazione fotografica.

Solo da queste poche indicazioni capite benissimo che Maiani è uno che – sia pure con laico distacco – con santi e madonne ha a che fare da una vita. E questo finalmente ci porta alla pala realizzata per la pieve di Calci.

La composizione è una rappresentazione notturna geometricamente divisa in due parti dalla figura centrale di sant’Ermolao, in abito eremitico e con la stola sacerdotale, che ha il braccio destro proteso verso il cielo e quello sinistro verso la terra. Sotto quel braccio protettore, nella destra della composizione, è collocata la pieve di Calci, dalla quale escono processionalmente i fedeli con in mano delle torce accese; in primo piano in basso un ramo d’ulivo divorato dalle fiamme; in alto, al di sopra del braccio del santo, una fitta nevicata. Dalla parte opposta è invece rappresentato san Pantaleone che presenta al presbitero un fanciullo malato; ai loro piedi un’insegna lignea su cui è inciso il motto che dal Trecento contraddistingue i Calcesani: VIRET SEMPERQUE VIREBIT (è verde e sempre sarà verdeggiante). Ai piedi di Ermolao è invece un volume su cui si legge in termini greci la parola εὐ-αγγέλιον, che significa lieto annunzio, buona notizia. Un particolare effetto dovuto alla stesura del colore sembra far sì che un vento gelido avvolga l’intera scena.

Una complessa simbologia quella che Maiani ha voluto presentare, che interseca piani diversi, sia cronologici, sia liturgici, sia agiologici.

Analizziamoli brevemente uno per uno.

Dal punto di visto cronologico le tre figure ci riportano al IV secolo, epoca in cui sono vissuti i protagonisti e ci collocano all’interno delle vicende narrate nelle due Passiones di Pantaleone, di cui possediamo diverse redazioni greche, latine, armene, copte ed arabe, e di Ermolao, protagonista di una sola tarda Passio latina. La parte destra della tela, con la fitta nevicata e la processione che esce dalla pieve di Calci, ci porta invece nel XIX secolo, il 17 febbraio 1804, esattamente 104 anni orsono, allorché fu attribuita la fine di un’eccezionale nevicata che rischiava di distruggere gli ulivi all’intervento miracoloso del santo, al quale i fedeli, usciti di chiesa su suggerimento della Deputazione di San’Ermolao e del pievano Giuseppe Ciaccheri, si erano devotamente rivolti e da cui prese vita la pratica del voto. Un evidente riferimento al tragico incendio divampato nella notte fra il 24 e il 25 settembre dello scorso anno è infine in basso a destra il ramo d’ulivo divorato dalle fiamme.

Sul versante della liturgia mi limito ad osservare che Maiani dipinge Ermolao con indosso una stola, che nelle chiese cattolica ed ortodossa assume diversi significati: in primo luogo è simbolo dell’autorità e della dignità sacerdotale, volendo ricordare che Ermolao era un presbitero della comunità di Nicomedia. Ma che cosa rende tale questa dignità? Da una parte l’innocenza necessaria per compiere il servizio sacerdotale e la stola simboleggia allora l’abito di gloria con cui sarà rivestito il servo buono e fedele dal Signore come ricompensa per i suoi meriti, evocando l’abito della festa che il Padre ha messo al figliol prodigo quando è tornato a casa vergognandosi di ciò che aveva fatto. Dall’altra, poiché indossata sul collo, viene assimilata a un giogo, ad un fardello, cui il presbitero deve piegarsi, spesso dai Padri associato all’immagine delle pecore che il buon pastore deve portare sulle spalle o alle corde con le quali Gesù è stato trascinato al Calvario e che il sacerdote deve liberamente accettare fino al martirio di sé. Alla stola Maiani aggiunge anche un abito eremitico, sdrucito, che – se pur non esplicitamente presente nella Passio ove Ermolao è sempre ricordato solo come presbitero – sembra voler alludere ad una ulteriore accentuazione della povertà cui il santo è chiamato, taumaturgo anargiro appunto.

E questo ci porta al terzo aspetto, quello più direttamente agiologico. Secondo la Passio Pantaleone era stato affidato dal padre pagano al medico Eufrosino e aveva appreso la medicina così bene da meritarsi perfino l’ammirazione di Massimiano. Avvicinatosi alla fede cristiana dall’esempio e dalla dottrina di Ermolao, era stato da questi progressivamente convinto ad abbandonare l’arte di Asclepio per guarire ogni male, non solo quello fisico, nel solo nome di Cristo: di ciò aveva fatto esperienza lo stesso Pantaleone, che si fece battezzare dopo aver visto risuscitare alla sola invocazione dei Cristo un bambino morto per il morso di una vipera.

Eccoci dunque alla conclusione parenetica (παραινετικός = che si propone di esortare o ammonire) che mi sembra assumere l’opera di Maiani: l’esempio di Ermolao, alla cui intercessione gli abitanti della Valgraziosa si sono affidati almeno dal XII secolo, spinga ogni cristiano a ricercare la guarigione dal male, sia quello fisico sia quello spirituale. Questa guarigione sarà possibile se e solo se, come Ermolao, assumeremo la povertà come cifra esistenziale, una povertà che non si manifesta tanto negli aspetti esteriori quanto in quella capacità – oggi per noi tanto difficile da comprendere – della gratuità, del far le cose bene e per il bene, senza doverne ricevere un immediato tornaconto, incarnando quella dimensione agapica che è il tratto caratteristico delle comunità dei primi secoli cristiani.

Stefano Sodi

Calci, 17 febbraio 2019

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